STANICA Andreea Elena

“Mariana”

Il mio nome è Mariana, ma gli altri mi chiamano Doina.

Le mie rughe sono solchi profondi, crepe nell’asfalto di questa capitale.

L’ho amata e odiata perché mi ha dato molto e tolto ancora di più.

Mi ha concesso di amare un uomo buono nei parchi che danno aria alla città e spezzano la catena grigia del cemento spruzzando un po’ di colore qua e là.

Uno sportivo, un uomo di buona famiglia, alto, altissimo costretto ad abbandonare la Dinamo perché a lui le trasferte all’estero non erano concesse dal regime comunista. Aveva avuto la sfortuna di uno zio in Germania e Ciausescu non poteva rischiare che, dopo l’ultimo tiro a canestro, non facesse ritorno in Paese. Così iniziò a dirigere un deposito di generi alimentari, si dette al commercio – chissà, forse per aggirare le razioni, per non costringerci di notte a metterci in fila per un po’ di carne in alimentari spesso vuoti – e io cominciai e gestire i vuoti a rendere. Avevamo contatti con tutta Bucarest: ristoranti, club, casinò. Ci arraggiammo come potemmo. Ognuno, all’epoca, si arrangiò come poté. Fu l’inizio della corruzione del popolo romeno, eredità di cui godiamo ancora oggi.

Bucarest, una capitale che mi ha fatto vivere il regime e poi di colpo, la libertà.

Può la libertà costringere una figlia ad andarsene lontana per cercare la sua felicità?

La mia lo fece, se ne andò, costretta dalla libertà di cui allora, finalmente, poteva godere.

Si sitemò in Italia e “Uccelli di rovo”, “Platoon” e “Rambo” divennero un ricordo lontano, una trasgressione al regime che custodiva ancora in un cassetto del comodino, nelle videocassette avute sottobanco.

Mia figlia che mi ha regalato l’infanzia di una nipote negandomi di fatto la sua adolescenza e la sua maturità.

Anche quell’uomo buono, che credo mi abbia amata più di quanto abbia saputo fare io, ora non c’è più. Mi piace però immaginarlo e lo faccio spesso. Lo vedo. È lì, in un campo da pallacanestro, in una città straniera, bello e alto, altissimo. Si alza da terra, prima della linea che divide la metà del campo avversario e tira a canestro. Vedo cambiare i numeri sul tabellone, aumentano di tre. La sua squadra vince. Mi guarda. Ha un sorriso umile. Gli sorrido a mia volta.

E ora che cosa sono senza di lui, senza mia figlia, senza mia nipote?

Madre. Nonna. Anziana. Donna, forse?

Mi appoggio al bastone e ad affetti ancora lontani.

Sono rimasta sola in una casa che non so più come abitare.

Presto! Andrò via di qua.

Presto! Apriranno i confini.

Presto! Gli aerei torneranno a volare.

Mi chiamo Mariana, ma gli altri mi chiamano Doina e il mio esilio comincia ora.